venerdì 22 marzo 2013

Joe Paterno

Scrivere di Joe Paterno è un gran casino, perchè è la dimostrazione che viviamo in un mondo in cui qualsiasi valore ha un prezzo, e che quindi non esistono valori assoluti.
Prima di novembre 2011, di Paterno si poteva parlare ore ed ore a livello sportivo, per un coach che ha guidato cinque squadre imbattute alla vittoria di un bowl, di cui due di seguito (1968 e 1969, il secondo anno è rimasto celebre per la battuta su Nixon), raggiungendo in totale 37 bowl e vincendone 24.
Poi, a pochi mesi dalla morte per un cancro all'intestino, il licenziamento in tronco da Pennsylvania perchè il suo assistente Jerry Sandusky abusava di ragazzi minori ma per il buon nome di Penn State, e soprattutto per continuare ad incassare i dollaroni degli sponsor che pagavano per vedere i Nittany Lions così forti, Paterno persuase i responsabili del college a non denunciarlo alle autorità.
Cosa resta di tutto ciò?
Una statua abbattuta in una università, diversi libri per distruggere/difendere l'operato del coach, una punizione della NCAA che mischia risultati sportivi a coperture di brutta gente. Ma perchè? Per i soldi? Per un coach che ha rifiutato Steelers e Patriots, i soldi? Per vedere grande, continuamente grande, il college che lo ha visto capo allenatore 45 anni, un'era geologica? Come può una persona che ha imparato a conoscere e valorizzare centinaia, migliaia di ragazzi, che li ha motivati, che li ha spinti a sfruttare le loro doti sportive per avere una istruzione di eccellenza, lasciare che altri ragazzi, poco più che bambini (dagli otto ai tredici anni la maggior parte) venissero abusati in quelle stesse stanze dove i suoi giocatori venivano spronati, allenati?
Evidentemente può, perchè la vittoria non si ottiene semplicemente allenando e spronando cinquanta ragazzi, ma si ottiene grazie a enormi montagne di soldi che entrano nei college dagli sponsor e che permettono di pagare staff di altissimo valore, palestre, campi che permettono di allenarsi anche quando fuori ci sono meno venti gradi, che permettono di avere studentati fantastici per i borsisti, e centomila altre cose che possono convincere un RB o un DE potenzialmente fortissimi a scegliere te piuttosto che andare ad Alabama o a Oregon.
Soldi, sono questione di soldi, non per sé stesso, ma per quella creatura che aveva contribuito a rendere così grande e forte, ma che non era in grado di proteggersi dal male che portava dentro.

martedì 19 marzo 2013

Dixie's Last Stand

L'incrocio dei cent'anni di college football ed il divampare della guerra del Viet-Nam furono una cornice controversa per uno dei più famosi incontri ribattezzati a priori "Game of the Century", che fiorirono in quegli anni sui campi statunitensi, spesso a torto, talvolta a ragione.
Sicuramente il secolo passato da quella prima New Jersey-Rutgers dava un senso al match come "gara del secolo": Longhorns contro Razorbacks, quelle che il rank di AP e Coaches davano rispettivamente come #1 e #2, con strisce vittoriose di 18 e 15 gare. Sembrava veramente una sorta di gara per il titolo nazionale, tanto che al Razorback Stadium di Fayetteville oltre alle 47.000 persone sedute sugli spalti, c'erano anche Nixon, il governatore del Texas Bush, e quello dell'Arkansas Hammerschmidt, in pompa magna per di più, pronti a consegnare la targa di campione nazionale alla vincitrice nonostante i bowls fossero lontani ancora quasi un mese e, soprattutto perchè anche Penn State stava completando la stagione imbattuta.
Per l'occasione la ABC aveva chiesto ed ottenuto dal coach di Arkansas lo spostamento della gara da ottobre al primo weekend di dicembre con la promessa della presenza di Nixon e della diretta della gara iniziale del campionato successivo prevista contro Stanford. Broyles aveva ottenuto che la novità del fondo in turf fosse installata nell'impianto. La gara prese il via a mezzogiorno, fuso orario centrale degli Stati Uniti, dato che il Razorback Stadium era sprovvisto di illuminazione, la ABC non ritenne di perseguire la strada di un nuovo spostamento, questa volta geografico, da Fayetteville a Little Rock, per teletrasmettere la gara in orario serale. Fuori rumoreggiavano i contestatori della politica di Nixon.
Come altre situazioni del genere, si scontravano due filosofie di gioco profondamente diverse con Texas che puntava su un attacco da 44 punti a gara di media, mentre Arkansas concedeva 6,8 punti a gara e guidava la classifica nazionale della difesa.

I Longhorns partirono loffi loffi, per una gara che era stata così pompata, il primo tempo si concluse con i padroni di casa avanti 7-0, con un fumble per i texani e sei turnover. La ripresa non fu migliore con una ricezione di Dicus da 29 yards per il 14-0 e un solo quarto per tirare su una gara apparsa stregata per chi di punti ne segnava in media undici ogni quarto di gioco.
In apertura il QB di Texas, James Street corse sulle sue gambe per il 6-0, coach Royal tenne fede alla sua intenzione di provare una trasformazione da 2 punti per evitare di arrivare al pareggio, così fu di nuovo Street a trasformare per il 14-8. La reazione di Arkansas e del suo QB Montgomery fu "quasi" straordinaria, arrivando sino alla linea delle 7 di Texas. Un field goal avrebbe chiuso virtualmente la gara dando ai Razorbacks nove punti di vantaggio ovvero due possessi.
Montgomery fu intercettato al terzo down da Lester, commettendo il primo ma sanguinoso turnover della gara. Texas non uscì in carrozza da quell'inizio di drive, costretta ad un quarto e tre dalla propria linea delle 47. Royal urlò a Street "Right 53 Veer pass" ed il QB parve non averci sentito bene.
"Are you sure that's the call you want?" "Damn right I'm sure!" pare fu lo scambio di battute, lo schema prevedeva un lancio profondo al TE, nell'huddle Street preparò il trabocchetto: avrebbe guardato e cercato Cotton per ingannare la difesa, per poi sparare su Peschel. Il gioco si realizzò nonostante una doppia copertura e Peschel guadagnò 44 yards portandosi sulle 13 di Arkansas. Jim Bertelsen si corse le restanti yards per il pareggio ed un lungo, lunghissimo brivido corse lungo le schiene quando Donnie Wigginton, in posizione di holder, acchiappò uno snap drammaticamente alto e lo posizionò per il calcio buono di Feller per il 15-14 con 3:58 sul cronometro. Le speranze di arrivare ad un field goal per Arkansas andarono svanite quando Campell intercettò Montgomery sulle proprie 21 con meno di un minuto.

Fin qui, la gara, ribattezzata "Dixie's Last Stand" perchè ultima tra le grandi competizioni sportive americane a veder schierate due squadre composte interamente di ragazzi bianchi.
Di qui in poi le polemiche, scatenate dopo i bowl (Texas battè Notre Dame al Cotton, Penn State battè Missouri all'Orange) perchè fu Texas ad essere proclamata campione nazionale nonostante entrambe le squadre avessero terminato imbattute, Penn State anzi declinò l'invito a partecipare al Cotton Bowl, risentita dalle dichiarazioni di Nixon riguardo all'assegnazione del titolo nazionale a Texas un mese prima dei bowl, situazione assolutamente fuori dalla norma in quel periodo.
Rimane celebre l'affermazione di Joe Paterno, coach di Penn al secondo anno consecutivo imbattuta, che sull'accaduto disse "I'd like to know how could the president know so little about Watergate in 1973 and so much about college football in 1969?"

sabato 16 marzo 2013

Dolly Gray

Chi era Dolly Gray?
O meglio, chi era veramente questo tizio che si spacciava per Jack "Dolly" Gray, che si era presentato ai St. Louis All-Stars per prendere parte alla NFL 1923?
Mah, si diceva che fosse addirittura un All American proveniente da Princeton, ma l'unico Gray All American del 1922 era stato Howard Grey, ed era tutto un altro paio di maniche. Sta di fatto che questo signor Gray si era presentato a Ollie Kraehe, proprietario, coach e giocatore degli All-Stars, che aveva abboccato, dato che al tempo non c'era certo Wikipedia per controllare la carriera di ogni giocatore sulla piazza.
St. Louis era una creatura di Kraehe che aveva messo tutte le sue energie per portarla a termine, convinto che se il football pro campava in buchi sperduti come Green Bay e Rock Island, figurarsi cosa poteva riuscire a fare lui in città come S. Louis grandi tre volte tanto. In realtà fu subito un gran casino, perchè di All-Stars ce n'erano pochi e tutti orientati alla fase difensiva, per cui la squadra segnava con il contagocce e gli affari per quanto riguarda il pubblico, non andavano certo meglio.
Il signor Gray, poteva segnare una svolta, questo All American che giocava end! Alla fine giocò ben tre gare, in cui fu chiaro che non poteva essere un All American date le sue qualità decisamente scadenti: messo alle strette confessò l'impostura a Kraehe che non disperò ma anzi cercò di trarne vantaggio. All'epoca St. Louis non è che navigasse nell'oro, così perché non provare a vendere un pregiatissimo All American a qualche concorrente con la scusa che servivano denari freschi? E chi era il gonzo che poteva cascarci?
Quel bel ciuffo di Lambeau, ovviamente.
Dopo una inopinata sconfitta 6-0 a Cleveland, Kraehe rilasciò Gray ai Packers in cambio di una certa cifra. Bene, la sola aveva preso la strada del Wisconsin, peccato che due settimane dopo fosse programmata al vecchio Sportsman's Park proprio la gara coi Packers.
Kraehe se la vide male quando Lambeau lo incantonò e gli chiese spiegazioni: pare che questo Gray avesse giocato una sola gara ed al momento di prendere il treno con la squadra per tornare nella verde baia, si fosse dileguato nel nulla. Il buon Ollie la buttò sul ridere, facendo passare il tutto per uno scherzo, e dichiarò non senza un evidente imbarazzo, che era stata sua intenzione da subito restituire i soldi una volta terminato lo scherzo.
Negli annali della NFL il ragazzo senza nome è ironicamente segnalato come "Gray, Jack (pseud.)"

venerdì 15 marzo 2013

The "Baugh/Marshall Rule"

Sammy Baugh è considerato uno dei migliori giocatori della storia della NFL e anche uno di quelli che, senza nemmeno fare tante storie, riuscì a strappare un contratto "pazzesco" ai Redskins nell'anno in cui venne draftato.
In fin dei conti, soldi spesi bene per uno che faceva il QB in fase d'attacco, il defensive back in fase di difesa e nei ritagli si cimentava pure come punter, è stato inserito nella squadra ideale di tutti i tempi della lega ed ha il numero ritirato, oltre ad aver detenuto fino all'altro giorno il record sul numero di yard su passaggio per la postseason con 335. Tra tutte le cose buone che ha combinato ce n'è stata una invece un po' così così che però gli è valsa la modifica di una regola della lega che da quel giorno porta ufficiosamente il suo nome: la Baugh/Marshall Rule, ovvero, se in un passaggio in avanti la palla tocca la porta, il passaggio è incompleto.
All'epoca le porte erano sulla goal line e non in fondo all'area di meta, dettaglio non da poco in quel freddissimo 16 dicembre del 1945 a Cleveland (pare ci fossero -22° al Cleveland Stadium), quando i Rams scesero in campo per la loro ultima gara in Ohio prima di trasferirsi a Los Angeles, di fronte c'erano i Redskins guidati da un maturo Baugh, intenzionato a replicare la vittoria finale del 1942.
E qui parte un po' di dietrologia, perchè la gara finì ad appannaggio degli arieti oro-azzurri con un vantaggio minimo (15-14) e due punti per i Rams furono assegnati nel primo quarto per una safety commessa da Baugh che colpì la porta nel tentativo di lanciare la palla in un passaggio in avanti iniziato con uno snap sulle 5 yards. Ovvio che la partita aveva ancora tre quarti del cammino da percorrere e che non si può gettare addosso a quella safety la "colpa" della sconfitta, ma alla fine l'amaro in bocca fu tale che il proprietario dei Redskins George Preston Marshall, nei meeting successivi alla gara, spinse ripetutamente per cambiare la regola ed evitare che tale situazione si ripetesse, il cambio prese simbolicamente il nome del QB e del proprietario che erano stati protagonisti in negativo della vicenda.
Non ho trovato dichiarazioni di Baugh in merito a quella partita, si sa che alla fine rimangono memorabili alcune sue perle come durante il training camp del 1937 quando il suo allenatore gli spiegò che doveva lanciare la palla in modo che colpisse negli occhi il ricevitore, per fargli capire la precisione che esigeva da lui,  Baugh serafico chiese "Quale dei due occhi?".

giovedì 14 marzo 2013

Vince Papale

Certe situazioni diventano storie che vale la pena raccontare perchè appena le senti, sai già che non si ripeteranno mai più.
In effetti, la NFL a metà anni '70 era diversa da oggi e lo stesso gioco del football era diverso, pur mantenendo il fascino di uno sport a volte brutale, a Philadelphia gli Eagles non vivevano anni positivi e la WFL, una nuova lega professionistica, cercava di affermarsi, con una squadra chiamata Philadelphia Bell.
I Bell vararono una strana operazione simpatia verso un pubblico che non li conosceva certo adeguatamente: aprirono i cancelli del loro impianto e fecero una specie di provini a tutti quelli che volevano partecipare, per selezionare un "uomo comune" da inserire nel roster della squadra.
La cosa, come è facile intuire, riscosse l'ilarità del mondo del football pro, abituato da decenni a draftare ragazzi di 22-23 anni super allenati e super preparati, direttamente dai migliori college.
Invece in quella corte dei miracoli spuntò un ragazzone di 30 anni.
Vincent Francis Papale, così si chiamava, di chiare origini italiane, che aveva frequentato la Interboro High School a Prospect Park, un sobborgo a sudovest di Phila, mettendosi in mostra per le sue ottime doti sportive: basket, atletica e football lo videro protagonista della sua carriera scolastica, tanto da spingerlo a iscriversi alla St. Joseph’s University grazie ad una borsa di studio atletica. Le sue qualità sportive vennero esaltate con i successi nel salto in lungo, nel salto triplo e nel salto con l’asta e la carriera universitaria si concluse anche con una laurea in Scienze del Marketing e Management conseguita nel 1968.
La vita successiva gli offrì poche possibilità di esaltare il proprio talento professionale, si divise tra il lavoro di barman e quello di supplente nella sua high school. Nel 1971 il suo matrimonio finì bruscamente con la moglie che lo accusò tramite un post-it lasciato in casa, di essere uno destinato a non andare da nessuna parte.
“You’ll never go anywhere, never make a name for yourself, and never make any money.”
Papale, senza il minimo background di football universitario, nel 1974 trovò posto come WR nei Philadelphia Bell, dove passò i tagli e giocò tutta la prima stagione. L'anno successivo la breve vita della WFL, e quindi dei Bell, terminò per il fallimento della lega, e Papale tornò a dividersi tra supplenze e lavoretti come buttafuori nel locale di Danny Franks, un giocatore che era stato tagliato l'estate prima dagli Eagles dopo i camp estivi.

Nel febbraio 1976 a Philadelphia venne assunto Dick Vermeil, ex HC di UCLA ed ex allenatore di special team ai Rams, allora a Los Angeles. Si immaginava una stagione dura, durissima, anche perchè le precedenti scelte sbagliate del team avevano privato gli Eagles della prima, seconda, terza (ai Bengals) e quarta scelta (ai 49ers) al draft 1976. Papale chiamò lo staff degli Eagles e, non si sa come, riuscì ad ottenere un provino ed a passarlo: nel 1976 diventò il più vecchio rookie della storia, inserito nel roster di Phila come wide receiver e special teamer. Non fu un fuoco di paglia, tutt'altro: Vince "Rocky" Papale divenne il beniamino dei tifosi, in una città, come ha detto perfettamente Federico Buffa:
"Dura, talmente dura che molti non hanno bisogno di essere sorteggiati per andare nell'esercito americano, ci vanno di loro spontanea volontà"
Pur osteggiato da alcuni giocatori tra i ben 120 che iniziarono il camp con gli Eagles, Papale si adattò perfettamente alla feroce preparazione imposta da Vermeil al fine di liberarsi dei giocatori non sufficientemente motivati; trovò posto nel roster inziale come special teamer, dopo la prima gara persa a Dallas contro i Cowboys, gli Eagles esordirono in casa contro i Giants, Papale recuperò uno dei due fumble che contribuirono alla vittoria 20-7, la prima di Vermeil in NFL.
Papale giocò 41 delle 44 gare delle tre stagioni consecutive, compresa la stagione 1978 dove gli Eagles, nonostante fossero ancora privi delle prime due scelte, finalmente tornarono ai Playoff giocando il wild card game ad Atlanta, e si ritirò a causa di un infortunio alla spalla. Eletto capitano dello special team dai suoi compagni per il triennio in cui giocò, fa parte della squadra ideale dei 75 anni dei Philadelphia Eagles, e la sua storia, edulcorata come in perfetto stile Disney (con annesse tutte le forzature del caso), è stata portata sul grande schermo con l'inequivocabile titolo Invincible.